Carlo Licheri, ex corsista Tracce vince due premi a Cortinametraggio. Intervista

Due premi per L’ultima Habanera, il cortometraggio del regista ed ex corsista Tracce Carlo Licheri in concorso al festival Cortinametraggio 2021, uno dei più importanti in ambito nazionale. L’ultima Habanera, alla sua prima assoluta, si è aggiudicato il Premio del Pubblico MYmovies, mentre alla cagliaritana Enrica Mura, protagonista femminile è stato assegnato il Premio Miglior Attrice.

 

sceneggiatura corsi ex corsisti carlo licheri

Continue reading “Carlo Licheri, ex corsista Tracce vince due premi a Cortinametraggio. Intervista”

Come scrivo i miei film: i fratelli D’Innocenzo, dalla Terra dell’Abbastanza a Favolacce

Damiano e Fabio D’Innocenzo sono degli autodidatti del cinema.

 

A tre anni vivevano a Campo Jemini, che è una frazione di Pomezia: “oggi ha perso tutto quello che aveva: i campi di grano immensi, i piccoli fiumiciattoli; era veramente meravigliosa”. Poi la famiglia si è trasferita ad Anzio, poi a Lavinio infine a Nettuno. “Stavamo con tutti, con cugini e zii, e la periferia era sempre lì, nelle nostre vite, ma molto meno di quanto è stato detto. Addirittura sono arrivati a chiederci se abbiamo mai visto uccidere qualcuno, e noi costretti a dire: no, mai”.

 

scrivere film, il cinema dei fratelli D'Innocenzo
Fabio e Damiano D’Innocenzo

 

Come scuola superiore hanno fatto l’Alberghiero. Ma non erano interessati né al turismo né alla ristorazione. “Non ci è servito assolutamente a niente; forse, solo ad annoiarci. Andavamo a scuola con il pigiama sotto i jeans. E quando tornavamo a casa, ci toglievamo i jeans, ci buttavamo sul letto e cominciavamo a disegnare e a scrivere con la televisione in sottofondo: mettevamo Italia 1, e guardavamo I Simpson“.

 

Finito “tristemente” l’Alberghiero, decidono di venire a Roma. “E più precisamente: ai margini di Roma, perché lì le case costano di meno”. Tor Bella Monaca. Anzi, “il Principato di Tor Bella Monaca, e quel principato era la nostra famiglia”.

 

 

Scrivere è sempre stata un’estensione di quello che siamo. La prima volta che abbiamo pensato di scrivere non avevamo nessun motivo particolare. Non c’era l’idea che quelle sceneggiature, poi, sarebbero diventate qualcos’altro. Noi volevamo solo scrivere il nostro film, quello che ci avrebbe fatto piacere vedere. Eravamo ancora estremamente ignoranti su come funziona l’industria del cinema”.

 

Intanto guardano tanto, tantissimo cinema. Con tutti i mezzi: “Ci saremo visti almeno tremila film senza pagare nella forma classica. Posso vedermi gratuitamente tutti i film di Haneke: basta un pc e un buon antivirus. Poi esce il suo libro di interviste e vado a spendere 30 euro per comprarlo. Il soldo fine a se stesso gira, capisci? Se qualcosa ti rende l’occhio grato e il pensiero riconoscente, quella fottuta mano afferrerà quel fottuto portafogli, quando ne avrà la possibilità“.

 

A 19 anni hanno già nel cassetto le sceneggiature di La Terra dell’abbastanza e di Favolacce, ma farli leggere ad un produttore è durissima. A vent’anni cominciano a lavorare nel mondo del cinema italiano. “Mimmo Calopresti, Alex Infascelli, Daniele Luchetti e Massimo Gaudioso si erano interessati a quello che scrivevamo, e cercavano di darci dei consigli. E ci avevano anche chiesto di collaborare con loro. E quindi, ecco, abbiamo cominciato a lavorare insieme a belle persone che facevano un bel cinema. Abbiamo iniziato a capire come un regista deve affrontare i problemi produttivi e tutte le cose che avvengono prima di un ciak. In quel periodo abbiamo lavorato come ghostwriter, ed è stato molto importante per noi. Non abbiamo nessun rancore per non aver firmato le sceneggiature di alcuni film. Q quello che ci serviva era entrare in punta di piedi in questo mondo, e fare la gavetta”.

 

L’occasione arriva con Matteo Garrone: Lo incontriamo in un terribile ristorante di cucina fusion. Ricordo che a un certo punto spuntò quest’uomo, questo torello, con il giubbotto di pelle, e noi lo riconoscemmo subito e andammo ad abbracciarlo. Parlammo dei suoi film, di Primo Amore, di quanto per noi sia stato sottovalutato. Passammo circa tre ore e mezza insieme, e lui si sentì quasi obbligato, credo, a invitarci a casa sua il giorno dopo. Andammo da lui con due copioni de La terra dell’abbastanza, che onestamente penso non abbia mai letto… Eravamo pieni di speranza, convinti di aver ottenuto chissà cosa. E invece quel giorno non facemmo altro che aiutarlo a portare un televisore dagli Studios De Paolis a casa sua. Poi ci salutammo e pensammo che sarebbe finita lì; invece ci ricontattò dieci giorni dopo, dicendoci che voleva una mano con Dogman. Senza di lui, forse, adesso staremmo ancora cercando di girare il nostro primo film. Quando si è sparsa la voce che stavamo lavorando con lui, sono stati i produttori a chiamarci. Si è completamente ribaltata la prospettiva“.

 

 

“Al tempo de “La Terra dell’Abbastanza” c’erano due vie malsane per instradare il film in termini di comunicazione: buttarci sull’addizione e sfruttare una corrente (che non c’è mai stata) oppure fare l’opposto, urlando screanzati robe patetiche come “noi siamo diversi”. Per pigrizia e per astuzia, non abbiamo fatto nessuna di queste due cose. Il cinema non è un magheggio da classifica e l’originalità è sempre nel punto di vista.

 

 

“Noi partiamo da un punto di vista. Poi pensiamo a trovare la storia che meglio possa dare al punto di vista un terreno largo, lungo e familiare e fertile e senza scuse. Solitamente, se la storia e il punto di vista sono precisi, la sceneggiatura arriva come resto doveroso: te la trovi già sul tavolo“.

 

Sul set devi riscrivere il film con gli attori, con la luce, con una spazialità definita, con una quotidianità di squadra: matita non serve più. È il momento in cui il pezzo di carta diventa un pezzo di vita e devi essere in ascolto. Spesso lasciamo, senza rimpianti, la sceneggiatura in camerino”.

 

“Noi non dividiamo mai in letteratura alta o bassa; per noi c’è tutto. Quello che rende interessanti gli autori è la loro capacità di saper prendere tutto da tutti, e di non fermarsi. Perché a un certo punto rischi di impigrirti, di ripetere, di fare sempre la stessa cosa. Topolino è una lettura imprescindibile, e lo sono anche i Peanuts. Alla nostra squadra non abbiamo mai dato riferimenti filmici, perché non volevamo limitarci; abbiamo parlato di letteratura”.

 

 

“Fin da ragazzi, abbiamo amato il cinema di Coppola, di Scorsese e di Rossellini, ma abbiamo amato anche The Wire, Friday Night Lights e Dawson’s Creek; abbiamo amato I Simpson, che sono la cosa più bella che sia mai stata trasmessa in televisione. E abbiamo sempre amato letteratura, fumetti, film. Tutto quello che è narrazione. Non c’è mai una divisione netta; non ci sono confini. Avere a disposizione 90 minuti o 10 ore non cambia l’approccio: tutto ritorna sempre allo stesso desiderio incontrollabile, bulimico, di raccontare qualcosa che ti appartiene, che è estremamente forte, ma che è invisibile“.

 

“Ci affacciamo a questa nuova prospettiva, che è la televisione, convinti che non scalzerà il cinema, ma che anzi ci aiuterà a lavorare ancora meglio. È una palestra. E il nostro approccio rimane sempre lo stesso, e cioè: dobbiamo raccontare una storia, e dobbiamo fare in modo che questa storia emozioni“.

 

Favolacce dice che non è il luogo a determinare chi sono le persone, ma è il contrario: e sono le persone che determinano il luogo. Favolacce è stato una risposta a chi ha ignorato La terra dell’abbastanza perché ambientato nella periferia. Dopo averlo visto, è difficile uscire dalla sala con la coscienza a posto; parla degli insospettabili, parla della provincia, parla di tutti quanti noi. Noi facciamo i film per raccontarci. Ma non per raccontare la nostra vita. Certo, anche quello fa parte del gioco; ma prima, molto prima, deve venire l’arte, poi l’artista”.

 

 

I protagonisti di entrambi i film sono dei naufraghi, solo che quelli della terra dell’abbastanza sono in piena tempesta mentre quelli di Favolacce sperduti in un mare calmo e piattissimo”.

 

Adesso scriviamo una sequenza interrogandoci immediatamente sul come la gireremo sul set. Se ci è confusa la sua futura messa in scena, la eliminiamo. Anni fa per noi un film era invece terminato quando sulla sceneggiatura c’era scritto Fine.

 

“Le sceneggiature per il cinema si possono scrivere in due. Inoltre non editiamo un bel niente. Io le mando a Fabio via email, lui la commenta dicendo “Ok” oppure “Mhhh”… E viceversa. Mai nulla di più eclatante. Non ci diamo consigli perché in realtà sappiamo quando una cosa è bella e sincera e quando invece si dimena per arrivare da qualche parte e finisce per diventare un piagnisteo di retorica e noia“.

 

“Considera che anche per le sceneggiature funziona così. Ne scrivi una, poi la lasci perdere per un po’. Come il vino. Deve passare un po’, poi torni e vedi se il raccolto era buono o se non valeva granché“.

 

Le dichiarazioni di Fabio e Damiano D’Innocenzo sono tratte dalle seguenti interviste:

 

http://www.ondacinema.it/speciali/scheda/intervista-ai-fratelli-dinnocenzo-il-buon-cinema-e-sempre-gratuito.html

https://www.lastampa.it/spettacoli/cinema/2020/03/11/news/i-fratelli-d-innocenzo-veniamo-da-tor-bella-monaca-ma-la-nostra-era-la-oxford-della-periferia-1.38579936

https://www.uzak.it/blog/su-favolacce-intervista-a-fabio-e-damiano-d-innocenzo.html

https://www.taxidrivers.it/144222/top-stories/non-solo-favolacce-intervista-con-i-fratelli-dinnocenzo.html

Come scrivo i miei film. Paolo Sorrentino e le conseguenze dell’immaginazione

“La cosa peggiore che può capitare ad un uomo che trascorre molto tempo da solo, è quella di non avere immaginazione. La vita, già di per sé noiosa e ripetitiva, diventa in mancanza di fantasia uno spettacolo mortale. Prendete questo individuo con il papillon: molte persone nel vederlo si divertirebbero a congetturare sulla sua professione, sul tipo di rapporti che intrattiene con queste donne; io invece, vedo davanti a me solo un uomo frivolo. Io non sono un uomo frivolo, l’unica cosa frivola che possiedo è il mio nome: Titta Di Girolamo”.

 

In questo monologo di Titta De Girolamo, il protagonista de Le Conseguenze dell’Amore, secondo film di Paolo Sorrentino, c’è forse tutto l’anti-Sorrentino, un uomo che non sa immaginare e che perciò non vede niente di interessante attorno a sé. Titta Di Girolamo è un uomo solo, che vive in un albergo, che lavora per la mafia essendone prigioniero e che decide di ribellarsi senza un vero perché. Ma sopratutto lo fa senza pensare alle conseguenze. Probabilmente perché non riesce a immaginarle.

 

come scrivo i film cinema paolo sorrentino le conseguenze dell'amore toni servillo
Toni Servillo è Titta Di Girolamo ne “Le Conseguenze dell’amore”.

 

Paolo Sorrentino invece, immagina tutto. Conseguenze e antecedenze, un prima e un dopo, digressioni e rimandi, cause ed effetti. In ogni suo film c’è tanto da vedere, sentire e percepire, e nonostante questo c’è anche la sensazione che ci sia dell’altro, che si intravede appena, si sospetta, si intuisce, e del quale se ne vorrebbe sapere di più.

 

Nicola Giuliano, suo primo produttore, racconta spesso ai corsisti di Tracce cosa ha pensato quando ha letto per la prima volta un soggetti di Sorrentino: “capisci che ha un mondo dentro”. Per cui non ti chiedi, come invece fai, rispetto ad altri autori, se sarà in grado, dopo aver scritto un bel soggetto, di scrivere anche una bella sceneggiatura.

 

“Almeno per me – ha detto Paolo Sorrentino – ogni film è un tentativo di svelare un mistero. Scrivere per il cinema significa anzitutto mettere in scena il proprio mondo. E prima di scrivere, bisogna capire se si ha questo universo da raccontare, che ovviamente abbia la sua originalità, che non sia convenzionale o banale”.

 

Ultimo di tre figli, nove anni di distanza dal fratello, e 14 dalla sorella, Paolo Sorrentino vive una infanzia e adolescenza come un figlio unico, a stretto contatto solo con i suoi genitori dei quali osserva la vita, le amicizie, gli incontri, le feste. Il passato è fonte di ricordi da elaborare per trasmetterli ai suoi personaggi.

 

“Da bambino ero quasi condannato a osservare, perché di persone della mia età con le quali interagire non ce n’erano poi molte. Stavo con i miei genitori e con i loro amici. Se i grandi mi rivolgevano la parola era per coccolarmi in maniera un po’ paternalistica. Ho trascorso un tempo che nel ricordo mi appare infinito, a vedere mio padre giocare a carte seduto su uno sgabellino. Guardando una partita di poker tra adulti si impara tantissimo: le allusioni, gli sfottò, le dinamiche del gioco, le psicologie. Gli amici di mio padre erano estremamente simpatici. Il poker implica delle attese e l’attesa stimola il parto della follia degli esseri umani. Potrei parlarne per ore. Alcune follie che li riguardavano le ho saccheggiate mettendole nei personaggi dei film“.

 

Il cantante confidenziale del suo primo film, L’Uomo in più, quel Tony Pisapia interpretato da Toni Servillo e più tardi protagonista del primo romanzo di Sorrentino, Hanno tutti ragione con il nome di Tony Pagoda, viene in parte proprio da quelle serate tra cinquantenni con un ragazzino ad osservarli.

 

 

“Il sabato sera, i miei invitavano gli amici a casa, mettevano un disco di Califano o Sinatra e ballavano i lenti. Io, bambino, li guardavo incantato. Ho fatto il mio primo film, storia di un cantante confidenzia­le, perché mio padre ascoltava Califano. Ho trasfigurato mio padre o gli amici di mio padre, cosa che ho fatto anche nella Grande bellezza. Essere figlio di genitori molto grandi mi ha aiutato ad osservare. Mi ero creato un mio bacino di immagini, un mio bacino affettivo nei confronti di questi adulti che oltretutto avevano delle regole precisissime: le donne giocavano a conchè, gli uomini giocavano a poker. E tutto questo mi è servito”.

 

Oltre alla memoria delle persone, c’è quella dei luoghi. Luoghi che a volte causano paure che ci porteremo dietro per tutta la vita.«Con i ragazzini del palazzo andammo a esplorare salgarianamente un palazzo davanti al nostro condominio. Dal piano terra iniziavano i normali appartamenti, ma il garage era da anni un cantiere semiabbandonato. Nel buio, dal nulla, all’improvviso uscì una donna vestita di nero e ci inseguì urlando con una scopa. Per me e per altri due bambini fu uno choc e trascorse tanto tempo perché riuscissi ad addormentarmi come prima. Ci dissero che erano tossicodipendenti, per me erano fantasmi. Per addormentarmi avevo bisogno che in casa ci fosse mio fratello. Sapevo che prima o poi mi avrebbe raggiunto in camera. Ma mio fratello era un grande nottambulo, uno che per gran parte della sua vita è tornato alle 5 del mattino, un uomo misterioso. Uno dei dibattiti più accesi, in casa, era imperniato su cosa facesse in giro ogni notte fino all’alba. Mia madre meditava di pedinarlo. Io lo aspettavo. Fino a quando non sentivo la chiave entrare nella toppa restavo con gli occhi sbarrati. Avevo dieci anni ed è allora che ho percepito la paura e la necessità di venire a patti con essa”.

 

Personaggi, azioni, luoghi, e anche suoni. “Quello del battere del coltello che mia madre usava per tagliare gli gnocchi. C’erano rumori rassicuranti e rumori misteriosi. Quello che tutte le sere alle 9 proveniva dal piano di sopra non si è mai capito da dove arrivasse. Era come una biglia che rimbalzava sul pavimento. Ma quando chiedevamo spiegazioni alla proprietaria dell’appartamento lei cadeva regolarmente dalle nuvole. ‘Biglie? Ma vi pare?’. L’inspiegabile ha alimentato la mia assoluta convinzione nell’esistenza dei fantasmi. Mia moglie mi prende sempre in giro per questa mia certezza”.

 

come scrivo i film cinema paolo sorrentino Il divo toni servillo
Il Divo. Toni Servillo interpreta Giulio Andreotti

 

Ma come si riesce a pescare dal proprio passato e ad estrapolarne gli elementi di un racconto odierno? “La malinconia è l’ideale per pescare le idee dal tempo dell’infanzia. Chi disse che ciò che accade di definitivo nella vita, succede entro gli undici anni? Per me è andata proprio così. Anche Il Divo è nato dalla suggestione di un ragazzino che vedeva continuamente Giulio Andreotti in tv. Quell’ uomo, evidentemente, aveva colpito molto il mio immaginario, forse perché per me coincideva con il lupo mannaro che, secondo quel che allora usavano dire magari scorrettamente i genitori, poteva comparire all’ improvviso in fondo al corridoio. Per Le conseguenza dell’ amore, andò allo stesso modo. Se ci si pensa bene,i bambini vivono ampi varchi di noia e di solitudine. E io ho capito che la solitudine di quando ero bambino si poteva trasferire a un uomo di cinquant’ anni. Quel film si sarebbe potuto chiamare Le conseguenze della solitudine“.

 

 

Pescare dalla propria infanzia ma anche dal passato recente. “Per La Grande bellezza ho fatto proprio questo. Questo film volevo farlo almeno vent’anni fa, quando da ragazzo venivo a Roma per lavorare e bazzicavo bar legati alla televisione e vedevo tutto il mondo che non esitava a frequentare quelle forme di squallore che io trovavo meravigliose e che mi hanno sempre suggestionato molto. Dirigenti che cercavano di abbordare le ragazze giovani, cose molto miserabili che su di me avevano una presa forte. Facevo un mio archivio di cose romane e di contesti per me misteriosi: la televisione, il Vaticano, la politica, queste feste mondane, tutte cose che non conoscevo venendo da Napoli, e che mi affascinavano e che ho voluto conoscere attraverso il film”.

 

 

Anche nel suo primo film americano, This must be the place,  ricorrono ricordi e immaginari: “Volevo misurarmi in maniera spudorata e spericolata con tutti i luoghi iconografici del cinema che mi hanno fatto amare questo lavoro sin da quando ero ragazzino: New York, il deserto americano, le stazioni di servizio, i bar bui coi banconi lunghissimi, gli orizzonti lontanissimi. I luoghi americani sono un sogno e, quando ci sei dentro, non diventano reali, ma continuano ad essere sogno. Questa stranissima condizione di continua sospensione dalla realtà mi è accaduta solo negli Stati Uniti”.

 

In quale momento tutti questi ricordi, frammenti di immagini, suoni, emozioni diventano scrittura? “La scrittura è un’altra cosa. Richiede, se non si vuole fare solo puro intrattenimento coi colpetti di scena, una moltitudine di sfaccettature, un’immersione nella vita passata e presente, insomma un complesso di coincidenze e talenti che potrebbero corrispondere all’intelligenza. Naturalmente, questa convergenza è rara e dunque si hanno sempre, a tutte le latitudini, molti bravi registi e pochi, capaci scrittori di cinema. Da sempre tengo da parte osservazioni, spunti, ritagli, cose che mi hanno raccontato. Per La Giovinezza ad esempio, in questa banca della memoria c’erano due reperti che hanno cominciato a lampeggiare. Uno era un fatto di cronaca: la regina Elisabetta aveva invitato Riccardo Muti a Buckingham Palace, ma non si erano messi d’accordo sul repertorio e lui non andò. La cosa mi colpì, perché da buon provinciale pensavo che alla regina non si potesse dire di no, ma Muti, napoletano come me, evidentemente si era sprovincializzato prima. La seconda era il ricordo di una cena con due uomini anziani che si erano messi a parlare di una ragazza di sessant’anni prima, ognuno voleva sapere se l’altro c’era stato. Non è che litigassero, ma si avvertiva una certa frizione”.

 

come scrivo i film cinema sorrentino youth giovinezza
Michael Caine e Harvey Keitel in Youth, La Giovinezza

 

E quando i ricordi diventano un vero e proprio film? “Il film non nasce dallo studio di una materia, a me vengono in mente dei personaggi più che delle trame. Una volta che individuo un universo, intraprendo una fase di documentazione. È un lavoro che faccio in maniera molto ossessiva, ma non appena vedo che l’eccesso di conoscenza del tema del film va a impoverire la mia immaginazione mi fermo. Infatti, ho la conoscenza delle cose imprecisa e incompleta. Ad esempio per La Grande bellezza cominciai ad andare alle feste, ma dopo essere stato a tre feste non andai più perché stava diventando una routine. Preferisco idealizzare certi mondi e riproporli così. E sono anche convinto che questo mi avvicini alla verità molto di più. L’Italia è un paese meraviglioso, gravida di un campionario umano vastissimo, eterogeneo, intelligentissimo, cialtrone, ironico o estremamente serioso“.

 

E alla fine ogni film è una sorta di terapia psicologica, un andare a ritroso per ritrovare sé stessi. “Io credo che sapere troppo di sé stessi sia pericoloso. E anche un po’ inutile. In fondo all’anima, rischi sempre di trovare un essere umano bolso e appesantito. E non ci sono diete per migliorare il sé. Sì, probabilmente avrei avuto bisogno, come tanti, di andare in analisi, ma ho sempre evitato. Non è detto che poi ci trovi chissà quale rivelazione su di te. Potresti anche rischiare di non trovare niente”.

cinema sorrentino come scrivo i film
Paolo Sorrentino. (Foto Pietro-Luca-Cassarino-wikimedia creative commons)

 

Qualche anno fa, parlando del passato e della perdita dei suoi genitori quando era ancora adolescente, Sorrentino disse: “Avevo sedici anni e fu una tragedia indescrivibile. Le parole che conosco non sono adatte. Servirebbero le immagini, la disinibizione e il coraggio. Servirebbe un film. Ma non è detto che, nei prossimi anni, non vinca il pudore e racconti di questo. Anche se sono trascorsi tanti anni, ci vuole tempo per ponderare, vincere le resistenze”.

 

E a giudicare da quello che sappiamo dell’ultimo film appena finito di girare, La mano di Dio, ambientato a Napoli, proprio negli anni di Maradona e del Sorrentino adolescente, film di cui non si sa nulla, ma che forse sarà un ulteriore tassello nel passato di un ragazzo in cui mettere definitivamente ordine. Lo vedremo.

 

Le dichiarazioni di Paolo Sorrentino sono tratte dalle seguenti interviste:

http://farefilm.it/persone/ogni-film-svela-un-mistero-paolo-sorrentino-si-racconta

https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2009/12/06/paolo-sorrentino.html

https://www.repubblica.it/venerdi/interviste/2016/01/15/news/confessioni_di_un_anziano_quarantenne_paolo_sorrentino-137890679/

https://www.vanityfair.it/show/cinema/2020/05/20/intervista-paolo-sorrentino-inconsolabile-tristezza-degli-adolescenti

 

Tratto da una guerra vera. Come nasce Fauda, la serie che mette d’accordo arabi e israeliani

Ci sono storie che si scrivono quasi da sole, quando ambientazione, personaggi, eventi e snodi narrativi sono già scritti e appaiono autentici perché lo sono. E qui la storia vera è quella di un ex agente dei servizi israeliani che decide di trarre un soggetto e una sceneggiatura dalla sua vita. Ed è così che nasce Fauda, serie Netflix ambientata nei territori occupati della Palestina.

Graham Green diceva che i servizi segreti sono il subconscio delle nazioni. Cosa è realmente una nazione, la sua politica, la sua storia, le sue ossessioni, e soprattutto il suo futuro, non si vede nella realtà della superficie ma è necessario scendere in profondità, laddove operano, e soprattutto notando come operano, i suoi servizi segreti. E se questo è vero, Fauda, rappresenta il subconscio di due nazioni contemporaneamente.

 

fauda serie sceneggiatura

 

Siamo al confine tra Israele e la Cisgiordania. Il Mista’arvim, è una unità dell’esercito israeliano specializzato in operazioni sotto copertura nei territori occupati palestinesi. Il suo personale è composto da soldati israeliani in grado di passare per arabi. Oltre ad essere soldati scelti, parlano perfettamente l’arabo parlato dai palestinesi. E della Palestina ne conoscono storia, cultura e naturalmente conoscono perfettamente il Corano.

 

Il loro compito è l’antiterrorismo e le loro attività consistono nel progettare, condurre e portare a termine operazioni sul campo, con l’obbligo, chirurgico, di non coinvolgere civili ed estranei. Quello che ne ricavano è una alternanza di vittorie e fallimenti, ma in tutti i casi, un senso di frustrazione e notevoli dosi di stress post traumatico, ma soprattutto una sensazione, condivisa con i loro antagonisti, di trovarsi in una situazione priva di vie d’uscita.

 

 

Uno dei meriti della serie, tre stagioni su Netflix, la quarta in arrivo quest’anno, è quello di calare dentro lo spettatore in una realtà quotidiana di persone sempre più intrappolate in un conflitto più grande di loro, che li domina completamente, senza poter mai neppure lontanamente intravedere una soluzione.

 

I personaggi sono tutti intrappolati: l’unità diretta dall’inquieto Doron, compie azioni le cui conseguenze spesso ricadono violentemente su di loro. Il loro governo è a sua volta prigioniero della ragione politica che spesso condanna al fallimento, militare e umano, la sua stessa unità. L’Autorità Palestinese è sempre più prigioniera del movimento Hamas, a sua volta prigioniero della sua ala militare, a sua volta prigioniero degli estremisti che arrivano da tutte le nazioni limitrofe, a cominciare da quelle a loro volta più destabilizzate, come la Siria.

 

fauda serie sceneggiatura

 

In mezzo a tutta questa “Fauda” (in arabo significa caos), si aggirano personaggi molto interessanti: il ribelle Doron (interpretato da Lior Raz, creatore della serie) capo unità sempre più scollegato dalla gerarchia militare e umanamente alla deriva, la dottoressa Shirin, medico all’ospedale di Ramallah divisa tra la lealtà palestinese e il desiderio di porre fine ad una lotta sempre più insensata che provoca morti e feriti in quantità industriali, la soldatessa Nurit, arrivata nell’unità con grande senso del dovere verso il proprio paese che vede sgretolarsi i valori in cui crede a cause delle azioni sempre più violente e inumane della sua squadra.

 

E poi Walid, forse il personaggio più bello: diciassettenne verosimilmente privato della sua infanzia, luogotenente di un leader estremista palestinese e destinato ad assumere sù di sé tutto il peso di un popolo sofferente oltre ogni misura e sempre in bilico tra umanità e cupio dissolvi.

 

fauda serie sceneggiatura

 

“Cerchiamo sempre di trovare la somiglianza da entrambe le parti, tra la nemesi e l’eroe“, ha detto Lior Raz, il creatore della serie. “Ci sono somiglianze nel modo in cui si comportano, ma da una parte ci sono i terroristi, che uccidono persone innocenti e sono motivati dalla vendetta. Dall’altra il mio personaggio, Doron è motivato dalla caccia, dall’adrenalina e dal fatto che qualcuno sta minacciando la sua vita e quella della sua famiglia”.

 

Lior Raz è un ex soldato delle forze speciali, ha ideato e scritto la serie con un vecchio amico, Avi Issacharoff, un veterano del combattimento e un noto giornalista. Raz, che ha quarantacinque anni, interpreta Doron Kabilyo.

 

Una cicatrice di tre pollici, un ricordo di un incidente automobilistico, gli riga la fronte e gli dona un’aria da uomo con un passato. Lion vive con sua moglie e i suoi figli in un sobborgo appena a nord di Tel Aviv, ma è cresciuto principalmente a Gerusalemme ed è nato a Ma’ale Adumim, uno dei più grandi insediamenti ebraici in Cisgiordania, una città di quarantamila abitanti che generalmente gli israeliani considerano un sobborgo di Gerusalemme piuttosto che una sorta di avamposto in cima a una collina. Viene da un background mediorientale e militare: suo padre è nato in Iraq, sua madre in Algeria. Suo padre era un ufficiale di carriera nell’equivalente israeliano del Navy seals nello Shin Bet, i servizi di intelligence. A casa sua si è sempre parlato arabo e si ascoltava musica da tutto il Medio Oriente. Più tardi, suo padre si dimise dall’intelligence israeliana per mettersi a gestire un vivaio e gli amici di Lior erano bambini arabi di Azaria e Gerico che lavoravano lì.

 

fauda serie sceneggiatura
Lior Raz, autore e protagonista di Fauda

 

Quando Raz aveva diciotto anni, seguì le orme del padre: entrò a far parte di Duvdevan, un’unità d’élite antiterrorismo concepita nel 1986 e che iniziò le operazioni non molto tempo prima dello scoppio della prima Intifada nei territori occupati. Duvdevan significa “ciliegia” in ebraico, un riflesso del suo status di ciliegina sulla torta nell’esercito. È il modello per l’unità senza nome in Fauda.

 

La sua unità era di stanza appena fuori Ramallah, la capitale de facto della Cisgiordania e la base per la leadership dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina. L’etica e l’addestramento assomigliavano a quelli del Navy seals: “spietato, brutale e costante”.

 

“A diciotto anni non sai bene cosa stai facendo. Pensavo che saremmo stati come James Bond, indossare una cravatta nera, bere Martini e prendendo i cattivi. Invece, abbiamo ottenuto fatiche inumane ed eterni falafel a pranzo a Ramallah”. Lui e i suoi amici aspiravano ad entrare nella unità Duvdevan non per ragioni ideologiche ma perché “vuoi far parte delle persone migliori del paese, per metterti alla prova. Vuoi essere fedele ai tuoi amici, proteggerli e far parte di una squadra che lavora insieme”.

 

La squadra al centro di Fauda lavora tanto quanto quella di Raz. Le sue operazioni vengono eseguite come rapidi “lavori dentro e fuori”, per arrestare un sospetto terrorista o per interrompere un’operazione terroristica. Il moto della Duvdevan era: “In qualsiasi forma, in qualsiasi luogo, in qualsiasi momento“.

 

 

I membri di Duvdevan non raccontano le missioni passate – quelli “devono rimanere oscuri”, ha detto Raz – ma parlano in termini altamente moralistici dell’unità, di come sono stati selezionati per il loro senso di probità e equilibrio. “Siamo stati scelti perché dovevamo essere calmi, morali, per non perdere la testa in mezzo ai guai, per pensare, per non comportarci come animali. Il compito era catturare il cattivo il più silenziosamente possibile, per evitare di uccidere o ferire chiunque altro. Alla fine di ogni operazione, c’era un debriefing su ciò che era successo e una valutazione sul lavoro svolto: ovvero fare un lavoro sporco nel modo più pulito possibile“.

 

Tre giorni dopo aver lasciato l’esercito, Raz si è diretto a Los Angeles con centoventicinque dollari in tasca. Per il suo background militare ha trovato subito lavoro in una società di sicurezza americana gestita da israeliani che lo hanno messo a guardia del corpo prima di Nastassja Kinski e poi di Arnold Schwarzenegger e famiglia. “Dopo l’esercito, sorvegliare una casa era piuttosto noioso”, e dopo cinque anni, quando ne aveva 25, è tornato in Israele.

 

Ha lavorato come batterista in una discoteca e poi come creativo in una agenzia pubblicitaria. Spinto da una ragazza a inseguire le sue ambizioni artistiche, ha iniziato a prendere lezioni di recitazione e ad ottenere ruoli in varie produzioni teatrali e televisive. E ha iniziato a pensare a un progetto che avrebbe attinto agli anni più pericolosi della sua vita.

 

Per circa due decenni, Raz e i suoi primi compagni nell’unità non hanno mai parlato del lato più brutto del loro lavoro, del prezzo richiesto ai palestinesi e del prezzo loro imposto. “È rimasto tutto lì e nel profondo di noi. Come persona, alla fine ti svegli e scopri di avere un disturbo da stress post-traumatico. Ti rendi conto di essere sempre teso, stressato, non stai dormendo, sei nervoso, sempre in allerta”. Quando a trentacinque anni, stufo di fare sempre lo stesso sogno, una pistola che si inceppa durante una sparatoria, ha deciso di andare da un terapista, nove anni fa. “Stavo per sposarmi. Ero stressato. Volevo solo essere un buon marito. Dopo circa cinque minuti di terapia, la psichiatra ha detto: “Hai il disturbo da stress post-traumatico, parliamone”.

 

Il business della televisione israeliana inizia con un ovvio svantaggio: il pubblico ha all’incirca le dimensioni di una qualunque metropoli occidentale. Inoltre gli ebrei ultraortodossi non guardano la televisione commerciale e molti israeliani palestinesi, che vivono a Nazareth, Umm al-Fahm, Acre, Haifa e in altre città e paesi, guardano le stazioni in lingua araba sul satellite. Le principali società di produzione, Keshet e Reshet, che creano programmi per il più grande canale di trasmissione, Channel 2, lottano per il pareggio; sperano di trarre profitto dalla vendita di proprietà all’estero.

 

Quando arrivano Raz e Issacharoff con in mano il soggetto della prima stagione di Fauda, i produttori sono scettici. Non solo non la vedranno – dicono – ma ci accuseranno, da destra a sinistra, di rappresentare i terroristi come eroi. Tuttavia quando il principale distributore israeliano di contenuti televisivi via satellite accetta di distribuire la serie, il progetto va in porto. E si comincia a girare. Un problema tecnico per Raz è stato che ha dovuto fare un provino per il ruolo principale, una circostanza che ha trovato “sconvolgente”. Ma quella non era certo la preoccupazione principale.

 

Raz e Issacharoff temevano che l’ala destra in Israele avrebbe detto che lo spettacolo aveva “umanizzato i terroristi”; temevano che la sinistra, insieme ai telespettatori arabi, dicesse che il suo ritratto di soldati umani era una farsa romantica e che ritraeva i palestinesi solo come terroristi. E invece.

 

Livida, magnetica, spiazzante, tecnicamente realizzata benissimo, Fauda è alla terza stagione, in attesa della quarta che arriva ad aprile 2021. Nel 2020 è stata la serie più vista di Netflix in Libano, la sesta in Giordania, la terza negli Emirati Arabi. È parlata per l’80% in arabo e per il 20% in ebraico. Consigliamo di vederla in lingua, anzi in lingue originali, per apprezzarne meglio la recitazione.

Corsi di sceneggiatura Tracce, Laura Grimaldi vince la Festa del cinema

Non è frequente, ma a volte succede che ai festival non vincano film di puro intrattenimento, ma storie vere che contengono temi importanti e attuali. E succede anche che corsisti Tracce vincano premi importanti. Laura Grimaldi, ex allieva dei corsi di sceneggiatura Tracce di primo e secondo livello, ha vinto la Festa del Cinema di Roma, con Santa Subito, di Alessandro Piva.

 

Santa Scorese aveva solo 23 anni quando il 15 marzo del 1991 fu uccisa da uno stalker che la tormentava da tre anni. Alla fine degli anni ’80 la parola “femminicidio” non esisteva ancora, e le istituzioni, la legge, non erano preparate ad affrontare il tema della violenza di genere e lo stalking. La storia di Santa è diventata un docufilm, Santa Subito, che ha trionfato all’edizione 2019 della Festa di Roma, ottenendo il Premio del Pubblico. Ne parliamo con Laura Grimaldi, sceneggiatrice ed ex allieva dei corsi di sceneggiatura di Tracce, che ha scritto il docufilm assieme al regista Alessandro Piva.

Continue reading “Corsi di sceneggiatura Tracce, Laura Grimaldi vince la Festa del cinema”