TRACCE festeggia il Golden Globe 2014 come Miglior Film Straniero appena conquistato da La grande bellezza, scritto e diretto da Paolo Sorrentino e prodotto da Nicola Giuliano , entrambi docenti Tracce.
Autore: Tracce Staff
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Esercitazione “C’eravamo tanto amati”: intervista a Johanna Bronner, costumista
Come i costumi fanno parte della narrazione e partecipano alla messa in scena. Johanna Bronner ha spiegato ai corsisti in cosa consiste e quanto sia bello e importante il lavoro di costumista.
Nella scena Gianni (Vittorio Gassman) e Antonio (Nino Manfredi) sono seduti ad un tavolo: uno ruspante avvocato in giacca e cravatta, che sappiamo già potrà tuffarsi in una piscina da ricchi; l’altro, umile e convinto proletario che recita da perdente fino alla fine del film, in maglione chiaro a maglia larga e camicia che spunta da collo e polsini, più povero che casual. Cosa hai suggerito ai ragazzi per attualizzare i costumi?
I due protagonisti maschili, Gianni e Antonio, hanno mestieri ben definiti: l’uno fa l’avvocato e l’altro l’infermiere. Nella scena originale i costumi esprimono non solo il ceto di appartenenza dei personaggi, ma sottolineano anche i loro caratteri: l’ambizione di Gianni e l’accettazione di Antonio del proprio ceto sociale.
L’interpretazione che i ragazzi hanno dato all’esercitazione è stata una trasposizione in chiave moderna della scena del film di Ettore Scola. Ho suggerito di partire da una ricerca sui codici di abbigliamento odierni, tipici dei due mestieri, e di scegliere gli elementi che esprimessero il carattere dei due protagonisti.
Per Luciana il discorso è stato un po’ più complesso, non avendo un preciso mestiere con cui identificarla. È un’aspirante attrice con l’aria svampita. In questo caso il vincolo che ho suggerito è stato di tipo prettamente narrativo. Era necessario vestire una donna bella e con velleità artistiche, ma che non fosse troppo eccentrica o sopra le righe, per rientrare nei gusti di un avvocato.
La scena nella trattoria del re della mezza porzione, infatti, è proprio quella in cui Luciana e Gianni si incontrano per la prima volta e si dichiarano amore reciproco. Per Luciana i ragazzi hanno deciso un look classico, ma con un’allure un po’ svampita, non totalmente inquadrata nella normalità.
La tua esperienza è veramente varia: teatro, televisione e soprattutto cinema delle “grandi firme”. Ricordiamo che hai lavorato con Milena Canonero nella squadra premiata con l’Oscar per i migliori costumi per Marie Antoinette di Sofia Coppola. E su altri set importanti di film (come Gangs of New York di Martin Scorsese) per i quali il costume faceva parte del genere e non poteva non farla da protagonista, anche nei capitoli di spesa. Nel panorama italiano più recente, però, si parla sempre meno di tagli di stoffa e sempre più di tagli al budget. Quanto questo ha trasformato il lavoro del tuo reparto? Ha rappresentato anche una sfida a ricorrere a mezzi più poveri ma anche più originali e fantasiosi?
Il mestiere del costumista è fatto di creatività che vorrebbe esprimersi al meglio, e il basso budget è spesso un forte vincolo.
Il nostro lavoro consiste nell’ interpretazione di un testo e nel tradurlo in immagine, ricreando l’atmosfera del racconto e il momento storico nel quale è ambientato. Tramite il costume, che diventa la seconda pelle dell’attore/attrice, aiutiamo gli interpreti a indossare i loro personaggi.
Quello che risulta sempre più difficile, dovuto ai budget ristretti, è proprio una delle cose più belle del nostro mestiere di costumista: poter disegnare e realizzare costumi ex novo, ideati esclusivamente per un dato film e per un determinato personaggio, individuando una chiave di lettura personale e unica al progetto.
Siamo sempre più spesso costretti ad usare costumi di repertorio per l’intero film: la progettualità per i costumi di un personaggio è vincolata a quello che si riesce a trovare di già esistente.
Quando i mezzi sono limitati, quello che si deve mettere di più in azione è sicuramente l’ingegno, ma non lo interpreto sempre come una nota positiva. L’inventiva, in questi casi, è orientata verso il lato più pratico: nonostante i mezzi poveri a disposizione, si cerca in tutti i modi possibili di ottenere costumi che soddisfino la propria visione e quella del regista. Ma la riuscita spesso non corrisponde al progetto iniziale.
Questa limitazione hanno potuto sperimentarla i ragazzi nell’esercitazione. Partendo da un’idea iniziale, hanno dovuto fare i conti con la realtà di un “non budget”, orientandosi nella scelta dei costumi che potevano trovare negli armadi di ciascuno di loro, scambiandosi vestiti e accessori. Il risultato si è avvicinato alla loro visione, ma è stato comunque dettato dai vincoli del già esistente.
Esercitazione “C’eravamo tanto amati”: intervista a Stefano Di Leo, direttore della fotografia
Dall’aula al set. Stefano Di Leo, direttore della fotografia, racconta come ha preparato i corsisti.
I ragazzi hanno studiato la scena in ogni singola inquadratura, ma andare insieme a te sul luogo della nostra moderna trattoria del “Re della mezza porzione” ha significato gestire una serie di problemi pratici. Essere malleabili ad ogni situazione è un’abilità da acquisire solo con la pratica?
La pratica è importante, per i futuri registi e per i futuri direttori della fotografia. Ma è anche vero che c’è una parte di preparazione alle riprese che deve essere affrontata secondo le necessità tipiche del fare cinema e secondo la specifica performance produttiva, che cambia di film in film e, nel film, di scena in scena. Per far questo è necessario soprattutto aver chiaro quali sono le caratteristiche dell’immagine e come controllarle.
Per rimanere alla lezione sul remake della scena del film di Scola, la problematica è stata inquadrata più o meno in questo modo: per quando riguarda la luce, bisognava legarsi ad una certa luminosità e ad un certo colore, che non dovevano cambiare nel corso della giornata. Per far questo, si è pensato di oscurare le finestre con 4 teli neri 4 metri x 4 metri, che sono tipici accessori del cosiddetto “lighting equipment”, ossia l’insieme dei materiali a disposizione della squadra degli elettricisti. Una volta oscurata la location, si è provveduto ad impostare l’illuminazione scenica nel parziale rispetto della versione originale del film.
Naturalmente, oltre al controllo della luce, è importante anche la gestione dello spazio. Prima di girare, abbiamo fatto dei sopralluoghi, durante i quali si è messa a punto una “shooting list”, ossia la lista delle inquadrature da girare in ordine non narrativo ma produttivo.
La scena originale era impostata in modo piuttosto consueto, almeno dal punto di vista della ripresa: un master, poi una serie di coperture e di pickup. Il problema è stato avere una location che, per una serie di motivi estetici e tecnici, non rispondeva esattamente alle necessità di chi fa ripresa. La soluzione è stata sconvolgere un po’ la disposizione dell’arredo del ristorante che ci ha ospitato, al fine di migliorare le inquadrature (il rapporto tra attori e sfondo, in particolare), toglierci dall’empasse di avere un’intera finestra in campo ma, soprattutto, rispettare la richiesta dell’attrice protagonista che, fortunatamente senza l’intervento del suo agente, ci chiedeva di inquadrare il suo profilo migliore.
Con che attrezzatura hanno avuto a che fare i ragazzi? Cosa hanno utilizzato per allestire il set? Nella scena originale c’è un gioco di luci che illumina Gianni e Luciana con un occhio di bue. Come avete ottenuto lo stesso effetto?
Ho avuto la fortuna di avere un eccellente collaboratore, che si chiama Alfredo Lembo, un ex studente del centro di formazione professionale Shot Academy. Dopo il sopralluogo, e quindi dopo aver individuato la performance produttiva, abbiamo stilato la “lista della spesa”. Per ciò che riguarda l’effetto “occhio di bue”, abbiamo semplicemente deciso di utilizzare due sagomatori da 750W alimentati attraverso un dimmer.
•1 X Canon C300 •1 X serie Zeiss T1.4 •1 x Slider •1 X Testata + coppa •1 X Monitor regia con waveform •1 X Mattebox e/o clip-on •1 X Follow focus •Rullose e cavi BNC •1 X Panno macchina
Lighting and grip equipment
•2 X Fresenel 2000W + lampada riserva •3 X 1000W Quarzo + lampada riserva •2 X Photo flood •2 X Occhio di bue piccolo •5 X Bandiere di panno •1 X Bandiere di seta •1 X Bandiere di metallo •2 X Telai Frost 100 X 100 (251) •3 X Polistiroli 1×1 bianco/nero •12 X Stativi con spadini completi + 2 aste prolunga •20 X Molloni •2 X Coccodrilli •4 X Magic arm •6 X Sand-bag •4 X Panni neri 4×4 •1 X Dimmer piccolo (3/5 KW) •10 X Prolunghe 16/16 •2 X Prolunghe 10 mt •6 X Vipere •10 X Ruba-corrente •1 X Rotolo 85N3 a consumo •1 X Rotolo 252 a consumo •1 X Stella + bazooka •10 X Pedanine •1 X Serie cubi
Esercitazione “C’eravamo tanto amati”: intervista a Elisabetta Lodoli
Un giorno di set così come dovrebbe essere, con tanto di preproduzione in tutte le sue fasi e i corsisti a coprire i ruoli dei vari reparti. Diamo la parola a chi ha svolto il ruolo fondamentale di tutoraggio: grazie all’esperienza di chi li ha guidati, l’esercitazione è stata per gli aspiranti registi il loro primo vissuto professionale. Ecco come Elisabetta Lodoli racconta questa giornata di lavoro.
Un’esperienza impegnativa e altamente didattica: mettersi alla prova con una scena girata originariamente da Ettore Scola non è stato semplice per i ragazzi. Quanto è stato importante per registi in erba avere l’opportunità di misurarsi con l’entusiasmo ma anche con tutte le problematiche reali di un set?
Nelle scuole d’arte s’impara a disegnare e a dipingere copiando e copiare non è un esercizio passivo, anzi è l’opportunità di mettere alla prova, di esercitare il proprio segno, di capire limiti e differenze.
Penso che lo stesso valga nel cinema e lo ha dimostrato l’esercitazione che abbiamo fatto con gli allievi di regia della scuola Tracce “copiando” la prima scena della trattoria di C’eravamo tanto amati di Ettore Scola.
I futuri o aspiranti registi hanno intrapreso questa esperienza con molta serietà e diligenza accettando innanzitutto la necessaria divisione dei ruoli. Uno solo poteva fare il regista, ma tutto il gruppo ha capito l’importanza della collaborazione sul set e della responsabilità del proprio ruolo e il rispetto di quello del regista.
Altro elemento fondamentale di questo laboratorio è stata l’esperienza del limite: il limite di tempo, di mezzi, di budget. E’ fondamentale misurarsi e capire i limiti per poterli affrontare, superare o accettare. Il limite deve essere un motore per la creatività. E i limiti si incontrano in tutte le produzioni, anche quelle più ricche. Tracce ha messo il gruppo in condizioni di lavorare al meglio, non c’era nessuna differenza con una troupe di un film a low budget, anzi era un set “ricco” per un low budget. Mancava certo l’esperienza, ma la presenza sul set dei professionisti di fotografia, suono, costumi, edizione e regia ha permesso ai corsisti di imparare sperimentando sul campo come si realizza una scena di un film e soprattutto di capire quanto lavoro c’è dietro un film e quanto complesso ed articolato sia.
A proposito di complessità, la parte più impegnativa dal punto di vista tecnico è stata la fotografia, perché la scena prevedeva un effetto di luce teatrale: la luce dell’ambiente si spegneva ad un certo punto e si accendeva un occhio di bue solo su un protagonista alla volta. A questo effetto di luce si combinava l’uso del dolly nella scena originale, sostituito da Tracce con l’uso di uno “slider” che ha permesso un movimento analogo ed altrettanto efficace.
E’ stato molto importante affrontare questa complessità e capire quanto tempo sarebbe occorso per raggiungere lo scopo. La scena era lunga e i corsisti avevano previsto molte inquadrature. Per poter portare a termine il piano di riprese previsto, il regista ha dovuto scegliere, riuscendo alla fine a garantirsi la cosiddetta “copertura” della scena.
Ora la parola passa al montaggio (con la supervisione di Claudio Di Mauro): in questa fase fondamentale, in cui si decide del senso, del ritmo e della continuità temporale della scena, si valuteranno anche le scelte fatte e gli inevitabili errori.
Durante la scena originale del film, un frate si avvicina al tavolo di Gianni, Antonio e Luciana, per fare il gioco delle tre carte e guadagnarsi qualche lira dai due uomini. In quel momento lo stacco… è uno scavalcamento di campo? Quando un’eccezione a questa regola fondamentale della grammatica della ripresa è lecita e non disorienta lo spettatore?
I corsisti si sono interrogati a lungo: in effetti, alla comparsa del fraticello, si avverte un salto. C’è uno scavalcamento di campo ma, a mio parere, è giustificato da ciò che avviene in scena.
E’ lecito chiedersi se questo scavalcamento di campo sia dipeso da un errore in fase di ripresa o da scelte successive in fase di montaggio o se Scola abbia ritenuto che non desse nessun fastidio e si sia concesso questa libertà.
Comunque siano andate le cose, è importante che gli allievi si siano interrogati sul problema dello scavalcamento di campo. L’eccezione alla regola è lecita quando non cambia il senso della scena, non distoglie dall’azione e dal sentimento, quando appunto non disorienta lo spettatore.
Ci sono stati autori, per esempio durante il periodo della Nouvelle Vague, che volontariamente commettevano “errori”, perché volevano disturbare lo spettatore, cioé non volevano che lo spettatore fosse passivo di fronte al film, ma fosse consapevole dell’artificialità del linguaggio cinematografico. Non è certo il caso di Scola, che pure ha sperimentato e mescolato linguaggi diversi, come si vede in C’eravamo tanto amati (narrativo tradizionale, documentaristico, teatrale, poetico “evocativo”). E che però non si è troppo preoccupato di uno scavalcamento di campo che, in questo caso, notano solo gli addetti ai lavori.