Successi Tracce, Il Ladro di Giorni va alla Festa del Cinema di Roma

Ci sono soggetti scritti per un corso di cinema che poi diventano cinema a tutti gli effetti. L’idea alla base del “Ladro di giorni” è di Guido Lombardi, ex allievo dei due corsi di sceneggiatura, di primo e secondo livello, che ha scritto il soggetto e poi lo ha sceneggiato insieme a Marco Gianfreda, conosciuto proprio a Tracce, e da Luca De Benedittis che di Tracce è il tutor che segue gli allievi nei vari corsi.

Anche Nicola Giuliano, della Indigo Film e premio Oscar per la Grande Bellezza, è un docente Tracce. Ha conosciuto Guido durante i corsi, ne ha riscontrato e apprezzato il talento e lo ha spinto a continuare a scrivere, finché una volta letto il soggetto, lo ha acquistato seduta stante aspettando il momento giusto per poterlo produrre.

E questo momento è arrivato proprio l’anno scorso quando il film è stato girato e ora viene presentato in concorso in questa edizione 2019 della Festa del Cinema di Roma, con protagonista, nel ruolo del padre del bambino, Riccardo Scamarcio.

 

Il ladro di giorni, un film nato nella scuola di cinema Tracce

 

“Il film – dice a Tracce Guido Lombardi – parla del tentativo di un padre di riallacciare i rapporti con il figlio, Salvo, che non vede da sette anni, periodo nel quale lui era in carcere e il bambino era stato affidato agli zii che lo avevano portato con loro in Svizzera. Qui il bambino ha vissuto una vita totalmente diversa da quella trascorsa fino ai cinque anni. Adesso ne ha 12, parla il tedesco, va benissimo a scuola, vive tranquillo in una comunità tranquilla. È totalmente integrato quando irrompe il padre, che quasi non lo riconosce, tanto è cambiato. Da qui inizia un viaggio in cui il padre cercherà di riprendersi il tempo perduto e l’affetto negatogli, fra tentativi iniziali e ingenui del figlioletto di scappare, la ricerca del colpevole che lo incastrò facendolo finire in carcere e alcuni segreti sul suo passato che emergeranno.

La storia del percorso del Ladro di Giorni dalla sua scrittura fino al set è così complessa e travagliata che potrebbe anche essa stessa diventare un film.

“Il soggetto – dice Guido Lombardi – vinse il Premio Solinas nel 2007. La prima versione della sceneggiatura approvata in Rai era del 2009. Considerando che siamo arrivati alla quindicesima versione della sceneggiatura, fra riscritture complete e lavoro più mirato sui dialoghi, si può capire il percorso di maturazione. Sono stati fatti in passato diversi tentativi di produrlo. Nicola Giuliano si era innamorato dello script già ai tempi del corso di sceneggiatura a Tracce, ma produrre un film è una operazione di incastri tra ricerca fondi, disponibilità degli attori, organizzazione delle varie produzioni, talmente complessa che vedere un soggetto finalmente in corso di produzione su un set ha quasi a che fare con la realizzazione di complesse congiunzioni astrali. In diverse occasioni il film pareva sul punto di realizzarsi e poi succedeva qualcosa che mandava tutto all’aria e bisognava ricominciare da capo. Per fortuna il progetto continuava a piacere a molti e quindi quando si ricominciava lo si faceva con forza. Ed è questo, credo, il motivo principale per cui un progetto poi alla fine vede la luce. La qualità del racconto, i mondi che riesce a creare, le emozioni che riesce a evocare, non solo in chi lo legge, ma anche in chi deve lavorarci per farlo diventare realtà”.

 

Il produttore premio Oscar Nicola Giuliano esamina i soggetti dei corsisti Tracce

 

Cosa consiglieresti a chi oggi vorrebbe cominciare il tuo stesso percorso, imparare a scrivere per il cinema?

Gli direi che il percorso che ho fatto io è uno dei tanti possibili, ma a conti fatti è stato anche l’unico che mi ha reso possibile ciò che è venuto poi, che sta venendo e che verrà. Ho seguito i due corsi di sceneggiatura, di I e II livello, con Tracce. Lì ho avuto modo di imparare il mestiere mettendolo in pratica. Perché se vuoi fare lo sceneggiatore devi scrivere, continuamente. Puoi leggere tutti i manuali del mondo, ma l’unica cosa che poi devi, prima o poi, fare è sempre quella: scrivere. E se lo fai seguito da professionisti di livello (per me furono Sorrentino e Nicola Giuliano, e so che Sorrentino partecipa tuttora ad alcuni incontri con i ragazzi di regia, mentre Nicola legge tutti i soggetti e le sceneggiature scritte dai corsisti) tanto meglio. Ho imparato che si può scrivere da solo o insieme ma, indipendentemente da ciò, il parere altrui è sempre indispensabile, dei professori quanto anche dei tuoi colleghi. Lavori su qualcosa di concreto: il soggetto, che è la prima cosa che interessa ad un produttore.

 

Prima del Ladro di Giorni, Guido Lombardi è arrivato finalista al Premio Solinas già nel 2004 con il soggetto ‘Fate presto‘ che ha vinto nell’anno successivo con la Sceneggiatura di “Scarpe nuove”; entrambi i progetti sono stati sviluppati all’interno del corso Tracce.

Ha poi esordito nel cinema firmando insieme ad altri ventitré registi (tra cui Paolo Sorrentino, Roberta Serretiello e Bruno Oliviero) il documentario “Napoli 24”. È stato sceneggiatore e regista del lungometraggio “La-Bas”, selezionato alla Settimana della Critica della Mostra del cinema di Venezia del 2011 con il quale ha vinto il Premio Leone del Futuro per la migliore opera prima. La sceneggiatura di “La-Bas”, scritta anche in collaborazione con Luca De Benedittis, Marco Gianfreda ed Emanuela Moroni viene presentato alla Settimana della Critica durante la Mostra del Cinema di Venezia nel 2011 e vince la sua sezione e il Premio Venezia Opera Prima “Luigi De Laurentis”; inoltre viene nominato al David di Donatello come Miglior regista esordiente. A livello internazionale LA-Bas ha vinto il premio Flash Forward al Busan International Film Festival, in Corea del Sud.

Nel 2014 esce nelle sale Take Five che porta in concorso al Festa del cinema di Roma. Lombardi è autore anche di due romanzi, “Teste Matte”, scritto assieme a Salvatore Striano e “Non mi avrete mai” scritto con Gaetano di Vaio, che forse diventeranno dei film o forse no, ma quello che davvero conta è scrivere. Scrivere sempre.

 

Si tratta di un altro successo di Tracce, dopo dopo Un Nemico che ti vuole bene, anch’esso nato e realizzato da docenti Tracce.

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    Docenti Tracce, Un Nemico che ti vuole bene, di Denis Rabaglia, debutta al Festival di Locarno

     

    Cosa succede se si ha a disposizione un killer professionista ma nessun nemico da uccidere? E’ il curioso e divertente spunto da cui nasce Un nemico che ti vuole bene, il film di Denis Rabaglia, regista italosvizzero e docente di Tracce, scritto dallo stesso regista assieme ad altri docenti della scuola come Heidrun Schleef e Luca De Benedittis.

     

    Il film, girato in Puglia e in Svizzera lo scorso inverno debutta in prima europea sul prestigioso schermo del Festival del Cinema di Locarno, il 7 e 8 agosto nella sezione Piazza Grande e vede tra gli interpreti Diego Abatantuono, Antonio Folletto, Paolo Ruffini, Sandra Milo, Massimo Ghini, Antonio Catania e Ugo Conti.

     

    Il film è ispirato a un racconto che a sua volta traeva spunto da un fatto vero accaduto durante gli anni ’70 nella Georgia sovietica. La storia di un killer in fin di vita che viene soccorso da un passante in bicicletta. Una volta in grado di mettersi in piedi, l’uomo scompare ma si ripresenta dopo un mese con la ferma intenzione di sdebitarsi con il passante che gli ha salvato la vita. E dato che di mestiere fa il killer, non può che pagarlo “in lavoro” e cioè uccidendo gratis qualcuno per lui.

     

    “A questa vicenda dice Denis Rabaglia – che in origine è un thriller carico di suspense, abbiamo aggiunto un elemento buffo, divertente, senza però stemperare la tensione e conservando un forte elemento di mistero. Ci siamo chiesti cosa sarebbe successo se l’uomo a cui il killer offre la sua prestazione gratuita fosse un signore pacioso e tranquillo, in pace con se stesso e con il mondo che lo circonda e che sia convinto di non avere nemici di nessun tipo e dunque nessuno da uccidere. la sua risposta perciò non può che essere negativa. Ma anche il killer ha una sua convinzione: tutti abbiamo dei nemici, palesi o occulti e in quest’ultimo caso vanno scovati. E così il sicario comincia a indagare sulla vita del nostro protagonista, scoprendo cose che a lui erano ignote o che gli passavano sotto il naso”.

     

    “Il film si può considerare nato durante le conversazioni tra i docenti di Tracce – dice Luca De Benedittis, fondatore della scuola assieme a Laura Soro – c’era Denis che era innamorato di questa storia e me ne ha parlato più volte, io ne ho parlato ad Heidrun che subito aveva pensato ad una black comedy, una vicenda drammatica ma con forti elementi da commedia. E alla fine si è convinto anche il produttore Attilio De Razza che ha deciso di essere nella compagine dei produttori, assieme a Andrea e Mauro Preti e Claudio di Mauro, decano dei montatori italiani e anche lui docente a Tracce, che ha anche montato il film.

     

    Diego Abatantuono è il protagonista, il “salvatore” privo di nemici del killer, mentre Antonio Folletto impersona il sicario intenzionato a sdebitarsi, Sandra Milo è la mamma severa e “peperina” di Abatantuono e Massimo Ghini l’ex marito nonché amante della sua attuale moglie.

     

    L’uscita in sala in Italia è prevista per il 4 ottobre 2018, distribuzione Medusa.

     

    Docenti Tracce, la tradizione del cinema civile italiano nelle opere di Graziano Diana

     

    Se si cerca su Google “Pertini il combattente” il docufilm dedicato all’indimenticabile presidente della Repubblica, l’utente si imbatte in oltre 1.250.000 risultati, a testimonianza del grande affetto del pubblico per il presidente più amato dagli italiani.

    Ideato e diretto da Graziano Diana insieme a Giancarlo De Cataldo, il film si inserisce naturalmente nella filmografia di Diana composta da opere di cinema civile, dedicato a persone delle istituzioni (Il capitano Ultimo, il giudice Mario Sossi, la poliziotta Emanuela Loi, i soldati italiani in missione in Kosovo), come a cittadini che si trovano coinvolti in storie criminali che hanno segnato il cammino della Repubblica (l’avvocato Giorgio Ambrosoli, l’imprenditore Libero Grassi, il carabiniere Pietro Campagna che indaga per scoprire l’assassino della sorella uccisa dalla mafia). Ha esplorato anche il nostro passato (Edda Ciano e il Comunista e Don Bosco), si è occupato anche di problemi sociali come l’usura (Vite strozzate) e il mondo dei tifosi (Ultrà) ed è autore anche di commedie (Maniaci sentimentali, lo Zio d’America, Amiche, il Giudice Mastrangelo).

     

     

    Graziano Diana, la tua è una filmografia prevalentemente dedicata all’impegno civile. Cosa ti affascina di questa tematica?

     

    Mi affascina stare dalla parte delle vittime. In questo mi allontano un po’ dalle epiche criminali mainstream che oggi vanno per la maggiore, che vanno benissimo intendiamoci, io però sono molto affascinato da quelle persone che si trovano a sfidare poteri criminali, sia perché il loro lavoro lo prevede, oppure perché sono dei semplici cittadini che si trovano in un dato momento della loro vita coinvolti in fatti gravi e devono fare delle scelte. Lo sceneggiatore si occupa essenzialmente di questo, delle scelte che fanno i loro personaggi e delle conseguenze che queste scelte comportano, vale per le storie che scrivi e nella vita reale di tutti i giorni. Nelle sceneggiature sono le scelte che definiscono il personaggio, magari anche all’insaputa del personaggio stesso che non credeva di essere capace di fare quello che poi fa. E’ un tema che mi interessa molto, che trovo molto stimolante.

     

    Sul set de “Gli anni spezzati”.

     

    Nel cinema civile, ovvero nelle biografie di personaggi illustri, queste scelte però sono già state compiute, sono scelte già conosciute. In questo caso quale è il valore aggiunto delle storie?

     

    Noi sappiamo che hanno fatto delle scelte, ma non sappiamo umanamente cosa abbiano comportato nella vita di quelle persone. Farle vedere o lasciare che si capiscano è il compito dell’autore di storie. E poi ogni racconto civile contiene comunque elementi cinematografici forti, anche il cinema civile è un cinema di genere. Il caso di Graziella Campagna che lavora in una lavanderia, una ragazza come tante che fa un lavoro come tanti. Una sera non torna più a casa e scompare, il fratello non crede alle verità ufficiali e a quelle sussurrate e si mette alla sua ricerca. Questo nel cinema di genere è un mistery. Oppure cinque giovani poliziotti di scorta ad un anziano magistrato che gli fa da figura paterna è il classico romanzo di formazione, così come i personaggi di Ultrà, ragazzi che si trovano a crescere e che un fatto drammatico indirizzerà, cambiandoli, su strade diverse. Sono linee di racconti diverso, cinema di genere e cinema civile, che si intersecano e che trovo molto stimolanti.

    Sul set de “Gli anni spezzati”

     

    Come scegli le storie da raccontare?

     

    Guardando alle vicende dei protagonisti di fatti di cronaca di solito c’è un elemento che scorgo e che mi affascina al pensiero di realizzarlo cinematograficamente. Ad esempio nell’Eroe Borghese oltre al celebre saggio di Corrado Stajano c’era questa contraddizione che mi è subito saltata agli occhi, di due elementi che di solito non vanno mai insieme: la borghesia, con il suo mondo spesso a parte, distaccato dalla realtà e isolata da tutto e da tutti – pensiamo solo al cinema di Antonioni e all’incomunicabilità che affliggeva i suoi personaggi – e un elemento come l’eroismo. Un professionista milanese, di estrazione altoborghese, viene chiamato a controllare i conti della banca di Sindona. Nessuno si aspetta, né chi lo ha chiamato, né gli stessi poteri criminali che sono dietro alla banca e che hanno interesse che nulla venga rivelato degli “affari loro”, che questo personaggio invece si metta fare seriamente e rigorosamente il proprio lavoro e che quando scopre cose sospette continui a indagare, non fermandosi di fronte alla complessità, all’opportunità di lasciar perdere, finanche alle minacce sempre più insistenti. La borghesia che nessuno si aspetta: custode di valori come etica, rigore, disciplina, onestà, lealtà verso il proprio lavoro e verso le istituzioni, valori che poi si trasformano come in sabbia che va ad inceppare i meccanismi di un ingranaggio, rompendo tutto.

     

     

    Quando scegli una storia da raccontare, la scegli in base al tema?

     

    No, non si parte da un tema, anche se ma prima o poi ci devi arrivare mentre scrivi. L’inizio è sempre qualcosa che ti emoziona, che può essere un sentimento, un fatto di cronaca, un personaggio, che vuoi capire per poi raccontare. All’inizio cominci confusamente a raccontare qualcosa che poi pian piano prende forma e a un certo punto capisci quale è la costante esistenziale mitologica che sta sotto gli eventi, un filo rosso che unisce i personaggi e gli eventi, e tu capisci che cosa stai raccontando veramente: il senso di giustizia, la speranza, la sfida, la vendetta, la viltà, le costanti esistenziali umane.

     

    Seul set de “Gli anni spezzati”.

     

    Ci racconti il giovane Graziano Diana. Quando ti sei appassionato al cinema?

     

    Sono stato appassionato soprattutto di storie. Già da adolescente avevo un quaderno dove appuntavo situazioni, abbozzi di storie e tratti di personaggi. Mi piaceva molto fantasticare, provare a immaginare, raccontare storie. Vista questa passione per la scrittura, mi regalarono una macchina per scrivere, una Olivetti, con la quale ho trascorso anni di scrittura amatoriale, allenandomi parecchio. Poi la città di Pesaro, dove ho trascorso la giovinezza, era ed è ancora una città molto viva a livello culturale, c’erano spesso rassegne cinematografiche, cineclub, occasioni per vedere film, per cui cominciai a scrivere recensioni dei film per i giornali locali. In seguito, al momento di iscrivermi all’università scelsi Roma e giurisprudenza, ma in realtà pensavo soprattutto al Centro sperimentale di cinematografia, dove riuscii a superare il concorso, non per sceneggiatura ma per produzione cinematografica. Ma pur di entrare e respirare l’aria di cinema, accettai lo stesso. Fortunatamente l’ultimo anno cambiò il direttore che trovò sbagliato questo sistema di rigida separazione tra le diverse specializzazioni e istituì l’anno comune per tutti dove si faceva di tutto e fu concesso anche agli studenti in corso di fare quest’anno di orientamento. Fu lì che ebbi come insegnante di sceneggiatura Furio Scarpelli che poi mi chiamò a collaborare con lui e con Ettore Scola.

     

    Scarpelli e Scola, due monumenti del cinema d’autore italiano.

     

    Tre monumenti, c’era anche Ruggero Maccari. Ho cominciato con loro come ragazzo di bottega per Maccheroni e La Famiglia, anzi come “segretario di sceneggiatura”, credo che esca così nei titoli di coda (abbiamo verificato e no, Graziano Diana figura nei titoli di testa come “Assistente alla sceneggiatura”, ndr).

     

    La Famiglia, di Ettore Scola.

     

    In cosa consisteva il lavoro di “segretario di sceneggiatura”?

     

    In un divertimento continuo. Loro erano fantastici e fantastici erano i loro battibecchi. Maccari era quello che arrivava puntuale in ufficio e  cominciava a lamentarsi dei ritardi degli altri, i quali poi si lamentavano dei lamenti ed era meglio di una sit com. Io mi occupavo soprattutto di tenere i verbali delle riunioni di sceneggiatura, annotavo
    le loro considerazioni e le loro revisioni, l’uno dell’altro. I grandi scrittori non temono il confronto, anzi lo cercano per cui c’era Scola che revisionava Scarpelli che revisionava Maccari che revisionava Scola. Specialmente di questo poi si lamentava la produzione, che si passasse tutto questo tempo con l’uno che revisionava l’altro. Era un contesto formidabile. Scola era già Scola, un autore a livello internazionale per cui in ufficio arrivavano telefonate da tutto il mondo, telefonava Jack Lemmon, il ministro della cultura francese, produttori di Los Angeles. E da quell’ufficio ho visto nascere un capolavoro assoluto come La Famiglia. Ho potuto vedere all’opera attori straordinari come Vittorio Gassman, Fanny Ardant, Philippe Noiret, Stefania Sandrelli e tanti altri. E’ stato come fare come un master a Los Angeles. E soprattutto ho preso confidenza con la sceneggiatura come struttura, come architettura narrativa. Quella de La Famiglia è un meccanismo perfetto, un orologio sincronizzato perfettamente, in una architettura complessa e strutturata, che è quella che poi mi trovo ad insegnare al corso di cinema di Tracce: la struttura in tre atti, il tema, il controtema, il dibattito tematico da cui nascono poi le scelte dei personaggi e le loro conseguenze.

     

     

    Finiamo da dove abbiamo cominciato. Da Pertini. Hai già detto in tante interviste che non c’è oggi un Pertini nella politica. E nel cinema?

     

    Non credo nemmeno nel cinema attuale. Però posso dire che c’è stato un Pertini nel cinema del passato. Era Marcello Mastroianni, un uomo eccezionale. Come Pertini con la politica, anche Mastroianni era mosso da una grande passione, il cinema, che però affrontava in modo che non ho mai visto fare da nessun altro. Aveva un gran senso di umanità, una profonda conoscenza della natura umana che riusciva a trasmettere poi sul lavoro, sui suoi personaggi, ma anche in tutto il set. Spesso d’estate lo incontravo a Fregene dove sostava in casa di qualche produttore: lo vedevo leggere il giornale, stare al telefono con la sua agente, parlare con i figli, sempre con quell’atteggiamento sereno e distaccato ma non distratto o superficiale ma come di uno che sa attribuire sempre il giusto valore alle cose e ai problemi della vita. Un sentimento di conoscenza della natura umana e della vita che riusciva a trasmettere anche sul lavoro, senza mai prendersi troppo sul serio, o essere serioso. C’è un aneddoto che lo descrive perfettamente: erano sul set di Ginger e Fred di Fellini, in mezzo a insegne luminose, lustrini, paillettes, tutta la scena era uno sfarzo enorme e lui a un certo punto dice a Fellini: A’ Federi’, me sa che stavolta ce sgamano. La sua intelligenza è un miracolo. Si, lui è senz’altro come Pertini. Anche se nessuno, giustamente, si sognerebbe di accomunarli.

     

     

    I Corsi di sceneggiatura di Tracce tenuti (anche) da Graziano Diana.

    Corso di sceneggiatura primo livello. 
    Corso di sceneggiatura secondo livello. 

    Docenti Tracce, la “cassetta degli attrezzi” per scrivere un film: intervista a Mario Sesti

    C’era una volta il critico che si recava in sala con il suo taccuino degli appunti. Di solito si trattava di un personaggio temibile, magari uno scrittore o comunque un letterato che entrava in sala, guardava il film, alzava spesso il sopracciglio, sbuffava, prendeva appunti, per poi recarsi nella redazione del suo giornale e scrivere quella che sarebbe stata la recensione pubblicata dal giornale. Spesso di trattava di un articolo denso di locuzioni come “si tratta di”, “parrebbe che” “vorrebbe dire” “opera che delude”, “soddisfa” o “deprime”.

    Spesso la recensione, o la stroncatura, erano il preludio a grandi litigate, confronti e scontri con gli artisti e non di rado finiva a querele e citazioni civili. Dall’avvento del web in poi la critica è profondamente cambiata: i siti web di cinema sono migliaia e tutti invariabilmente pubblicano recensioni più o meno competenti, più o meno fondate, in una inflazione di commenti e opinioni che si sovrappongono l’un l’altra e che fanno pensare alla professione del critico come ad un mestiere in via di estinzione se non già estinto.

     

    Mario Sesti, giornalista, scrittore e docente di critica e sceneggiatura a Tracce, è un critico cinematografico che spesso “passa dall’altra parte”. Scrive e pubblica sempre recensioni ma spesso utilizza linguaggi narrativi diversi realizzando programmi televisivi di approfondimento, ideando rassegne e retrospettive, intervistando attori e registi e realizzando e documentari e film tematici che spostano il confine della critica molto più in là in pieno territorio autoriale.

     

    Mario Sesti, la critica è ancora un mestiere, nonostante oggi tutti parlino di cinema?

    Oggi tutti possiamo parlare di cinema perché tutti abbiamo visto un numero di film sufficienti a convincerci che sappiamo il cinema, capiamo di cinema e possiamo esprimere giudizi competenti. Perciò, come diceva Truffaut, qualunque spettatore da sempre ha due lavori: il proprio e quello di critico cinematografico. Naturalmente il critico possiede conoscenze e competenze precise che gli permettono di parlare di un film in modo approfondito, svelandone aspetti nascosti e veri e propri segreti. Certo, come tutti i linguaggi espressivi la critica può commettere straordinari errori, specie nelle cosiddette stroncature, di cui la letteratura è piena e che non hanno evitato clamorosi errori. Personalmente non amo la stroncatura, la considero un esercizio un po’ adolescenziale, oppure se proprio ci si sente di farla, allora sarebbe bene utilizzare uno stile proprio, come nel caso di un grande autore, purtroppo scomparso, Alberto Farassino che scriveva recensioni e anche stroncature celebri, scritte in modo che l’autore quasi non se ne accorgeva.

     

    Anche il critico è un autore, quindi?

    Assolutamente si. Nella critica ci sono stati grandi scrittori e critici come Kezich, Grazzini, Bianchi, e soprattutto Alberto Moravia che sulla sua rubrica cinematografica dell’Espresso, non a caso una delle più longeve della storia dell’editoria, ha scritto sul cinema cose fondamentali. Una volta il mestiere del critico era quello di scrivere un articolo per un quotidiano o un settimanale e per molti anni l’orizzonte del critico si è limitato a questo. Oggi non è più così. Un critico può passare dall’altra parte e diventare autore, concepire e realizzare programmi di cinema, documentari, veri e propri film, guardare dove altri hanno già guardato e proporre altre angolazioni, punti di vista, approfondimenti che non erano ancora stati compiuti, sguardi inediti.

     

    Il corso di critica che tieni per Tracce si chiama Il Piacere degli occhi. Perché questo titolo e di quale piacere si tratta?

    Il titolo cita il libro che raccoglie le critiche di Francois Truffaut. A volte ci capita, mentre vediamo in film, di vedere una scena e cominciare a fantasticare, senza una particolare volontà di farlo ma semplicemente perché siamo portati a farlo e ci troviamo a inseguire pensieri, stabiliamo strane connessioni. Poi torniamo al film e riprendiamo a seguirlo. La critica è anche questo, riuscire a rendere anche queste sensazioni, queste strane connessioni che facciamo da spettatori per inserirle in un racconto coerente al fine di dire qualcosa e altro da quello che si sta vendendo, dal film che stiamo analizzando. E riuscire o meno in questo, riuscire a fare un buon lavoro, dipende dalle proprie competenze e dal proprio stile. Infatti a volte ci sono critiche straordinarie di film mediocri, e a volte naturalmente il contrario. Però tanto più il racconto critico è coinvolgente, tanto più riesce a favorire quel piacere degli occhi da cui appunto il titolo del corso.

     

    Ci racconti come si svolge il corso?

    Cerchiamo di raccontare questo strano mestiere da un punto di vista moderno e funzionale a cosa significa fare questo lavoro oggi. Niente lezioni teoriche sull’universo cinema – non ci basterebbe una vita – ma lavoriamo sul campo. Un solo autore, i suoi film, le sue scene maggiormente significative. Le guardiamo e attraverso alcuni attrezzi del mestiere, le scomponiamo, le smontiamo per guardarci dentro e raccontare cosa abbiamo visto e cosa ci sembra di aver capito. In questa ultima fase ci esercitiamo a scrivere testi già pensati in origine per diversi tipi di media, dal cartaceo al documentario scoprendo come può variare un testo critico in funzione del media a cui è destinato. Infine la lezione finale: l’incontro con l’autore, che viene a vedere il risultato delle nostre “lastre”, delle nostre analisi sul suo lavoro, per discuterle con gli allievi. E questo è il momento delle scoperte e delle sorprese, da ambo le parti.

     

     

    Con Tracce partecipi da docente anche al corso di sceneggiatura, occupandoti di elementi del racconto cinematografico come l’incipit, il punto di vista, i personaggi i dialoghi. Come affronti questi argomenti?

    Con quella che io chiamo “la Cassetta degli attrezzi”. Il cinema è un racconto per immagini, composto tra le alte cose da elementi come l’Incipit, l’inizio del racconto, i personaggi, il punto di vista, i dialoghi. Questo metodo nasce da un corso che tenevo al Centro sperimentale di cinematografia, “Teoria del racconto cinematografico e televisivo”. L’idea era unire le teorie classiche della narratologia con il lavoro dagli autori. Selezionavo scene particolarmente significative di film importanti, per procedere a smontarli, aggredirli, scomporli proprio con questa sorta di cassetta degli attrezzi, come fa un pilota in una cabina di pilotaggio, quando ti mostra i comandi: la cloche, gli indicatori, le leve, i pulsanti. Questo corso ebbe un discreto successo e Luca De Benedittis che era uno degli allievi mi chiese poi di replicarlo per il corso di sceneggiatura per Tracce.

     

    Puoi citarci due scene significative che analizzi nel corso di sceneggiatura?

    Due esempi di stili di narrazioni diverse. In Old Boy di Park Chan Wook, oltre ad un inizio, un incipit davvero fenomenale, un uomo che regge un altro in bilico in cima ad un grattacielo e non lo lascia cadere dicendogli: “devo raccontarti la mia storia”, tutto il film è raccontato da quello che possiamo definire il “narratore visibile”. In questo caso il narratore sa tutto della storia che lo spettatore sta vedendo. Ne conosce ogni dettaglio e rilascia le informazioni ad arte, con sapienza, pian piano in modo da accompagnare lo spettatore fino alla fine della storia e allo svelamento dell’intrigo.

     

     

    Il secondo esempio è nel film La Conversazione, di Francis Ford Coppola. Questo è un esempio magistrale di “Narrazione invisibile”, il narratore non solo non ne sa più di noi, ma sembra che il film si stia girando proprio nel momento in cui lo stiamo vedendo. In questa scena vediamo la macchina da presa seguire il personaggio di Gene Hackman, un tecnico delle intercettazioni, che rientra a casa. Oltre ad aprire un numero incredibile di serrature, lo vediamo telefonare alla padrona di casa chiedendo la restituzione delle chiavi. Tutta la telefonata è ripresa da due panoramiche di una sola macchina da presa che gira sul proprio asse. Ma i movimenti sono lenti, quasi come se il regista non fosse interessato a quello che sta succedendo. Ad esempio il personaggio esce dall’inquadratura e la camera non lo segue. Poi, con molto ritardo lo raggiunge sul divano per poi perderlo daccapo. Dirà poi Coppola: “volevo dare l’impressione che anche la camera, come il personaggio, fosse uno strumento che non possiede emozioni e reazioni a ciò che registra, come il protagonista”. Ecco, Coppola in questo film riesce in un perfetto prodigio: comunicare l’idea che il narratore sia stato messo da parte e che il film “guardi se stesso per la prima volta” insieme a noi.

     

     

    I corsi di Tracce con docente Mario Sesti.
    Corso di critica cinematografica.

    Corso di sceneggiatura di primo livello

    Corso di sceneggiatura di secondo livello.