Elettra Raffaela Melucci: Raccontare la realtà attraverso il documentario

Elettra Raffaela Melucci, sceneggiatrice e documentarista, racconta come la scuola di cinema Tracce abbia trasformato il suo approccio alla scrittura e l’abbia guidata verso il mondo del documentario. In questa intervista, ci conduce attraverso il suo percorso, dal valore del racconto autentico all’ultimo lavoro dedicato alla comunità transgender di Napoli con cui ha lavorato insieme al regista Giovanni Battista Origo.

 

  1. Elettra, cosa significa per te scrivere oggi, e come Tracce ha influenzato il tuo percorso verso il documentario?

Scrivere per me è un mestiere, una disciplina, ma anche un modo per capire dove stanno andando i miei pensieri. Tracce è stato il mio turning point: mi ha insegnato che la scrittura non è solo passione, ma un lavoro che richiede studio, strumenti e confronto. È lì che ho imparato a indagare la realtà, a osservare con attenzione.

Quando mi sono iscritta, non cercavo una svolta, ma conferme e competenze. Grazie a lezioni come quella di Giorgio Arlorio – “Studiare per conoscere e guardarsi intorno” – ho iniziato a capire quanto fosse importante il legame tra scrittura e realtà. Questo principio mi ha guidato verso il documentario.

  1. Cosa rappresenta per te il documentario rispetto ad altri linguaggi cinematografici?

Il documentario è uno strumento di indagine e di confronto. Non si tratta solo di raccontare, ma di entrare in relazione con le persone, ascoltarle, e costruire insieme un dialogo; trovare tra me autore e te persona un canale di comunicazione, assolutamente non invadente e rispettoso. E quando le persone ti aprono le porte, si aprono, per farti conoscere la loro realtà, è bellissimo. Per me non vale la pena fare arte solo per l’amore dell’arte: il cinema, e in particolare il documentario, deve essere al servizio della società. Poi ci sono zone della realtà che non richiedono l’intervento della finzione, e quelle sono le storie che voglio esplorare.

  1. Da pochi giorni si sono concluse le riprese dell’ultimo progetto, dedicato alla comunità transgender. Come hai sviluppato questo lavoro?

La parte più sfidante alla quale ho lavorato con Giovanni Battista Origo coregista dell’opera e mio collaboratore creativo, è stata costruire un contesto accogliente e privo di forzature per le protagoniste.

Ogni persona intervistata racconta la propria storia all’interno di un momento, un piccolo contesto di finzione costruito da me e Giovanni. C’è stato un grande lavoro di contatti, relazioni, scambi e infatti vogliamo ringraziare Loredana Rossi che è la presidente dell’Associazione Transessuali Napoli, una persona meravigliosa, e anche Porpora Marcasciano, consigliera comunale a Bologna (seconda donna trans consigliera comunale a Bologna). Senza il loro prezioso aiuto e senza il loro confronto, non saremmo riusciti a portare a termine il progetto.

In ogni incontro la promessa era di non invadere la vita delle persone: “raccontateci quello che vi sentite, perché il documentario lo fate voi, non noi”. Le interviste, i loro racconti, sono stati un atto di fiducia reciproca a cui hanno risposto tutte con una generosità sconfinata e siamo molto contenti.

Il nostro obiettivo era far emergere un discorso unitario e organico. Questo documentario, infatti, non è rivolto solo a chi conosce già il mondo transgender, ma soprattutto a chi lo giudica o lo mina. Vogliamo che queste storie autentiche facciano riflettere chi guarda, portandolo a confrontarsi con i propri pregiudizi. È stato un lavoro emotivamente impegnativo, ma mi ha fatto crescere moltissimo, un confronto che mi ha aiutato anche a rivedere la mia dimensione umana e professionale.

  1. Quali sono i tuoi progetti precedenti e come ti hanno portata al documentario?

Ho iniziato con la fiction e i cortometraggi, sempre in collaborazione con Giovanni. Uno dei nostri primi lavori, Il Sacro Graal, è stato un episodio di un film collettivo In bici senza sella distribuito al cinema e su Sky, che ci ha dato molta visibilità. Poi c’è stato La notte del professore, un corto a cui sono particolarmente legata per la sua storia di solitudine e comunità. Poi qui abbiamo lavorato con dei professionisti di un certo livello come Benedetta Buccellato, Renato Scarpa, Vittorio Viviani.
Pur amando la fiction, mi sono resa conto che alcune realtà sono più interessanti così come sono, senza bisogno di essere reinventate. Questo mi ha portata al documentario, un linguaggio che mi consente di giocare con la realtà e, allo stesso tempo, rispettarla.

  1. Che ruolo hanno avuto i docenti e le lezioni di Tracce in questo tuo percorso?

I docenti di Tracce sono stati fondamentali. Giorgio Arlorio, con il suo invito a studiare e conoscere, mi ha trasmesso un metodo di lavoro che applico ancora oggi. Mattia Torre, la naturalezza con cui approcciava a noi, mi ha insegnato il valore della leggerezza nella scrittura: non prendersi troppo sul serio, farsi comprendere, è fondamentale per evitare che la scrittura diventi autoreferenziale.
Anche Luca, con il suo approccio pragmatico, mi ha dato consigli tecnici molto concreti sul documentario, dimostrandomi che non si tratta di un linguaggio distante, ma di un mezzo che potevo fare mio. Mi ha anche ricordato quanto è importante divertirsi, in questo lavoro. Le lezioni, insomma, non sono state solo tecniche, ma anche umane: mi hanno aiutata a costruire un’identità professionale solida e consapevole.

  1. Quali sono i tuoi prossimi passi come documentarista e sceneggiatrice?

Sto lavorando su un nuovo documentario dedicato al mondo del lavoro nelle carceri, un progetto complesso che richiede tempo e un’attenta costruzione. Voglio continuare a esplorare la realtà, raccontando storie che abbiano un senso profondo e un impatto reale.

La mia arma principale resterà sempre la scrittura e il documentario mi ha insegnato che è possibile costruire un ponte tra la mia visione e quella delle persone che racconto. È un processo di continuo scambio, e credo che questa sia la parte più affascinante del mio lavoro.

 

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